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FASE 2. FINE DEL LOCKDOWN: SEI DAVVERO PRONTO AD USCIRE?

Giulia 13 anni studentessa: “Ho 13 anni e tutti questi giorni di chiusura mi sono pesati un bel po'. Ho finalmente rivisto i miei amici. Quando ci siamo rivisti, ci siamo "abbracciati", abbiamo pianto, ma era un pianto di gioia.
covid-19 sindrome della capannaOra sto uscendo tutti i giorni, mi sento felice, adrenalinica, non ce la facevo più a stare chiusa in casa! Abbiamo subito cominciato a farci le foto insieme, ridendo e scherzando e postando, questa volta con un nuovo outfit, le mascherine
”.

Marcello 33 anni informatico: “Questa quarantena mi ha fatto capire che non ho bisogno poi di tante cose. Forse mi è mancato solo un amico e andare a correre, per il resto sono stato benissimo, anche meglio. Penso che lo smart-working non debba essere relegato solo a situazioni di emergenza, ma diventare una pratica comune, così si evitano le conflittualità insite nel lavoro, l’arrivismo, la competitività, vedi meno le persone e pensi meno alle cattiverie che ti possono fare...”.

Nella realtà sono trascorsi soltanto due mesi dall’inizio del confinamento, ma la nostra mente ci rimanda una percezione diversa, quasi distorta del tempo, come se ne fosse trascorso molto di più, come se tutto fosse cambiato, compresi noi. Sappiamo che di fronte ad uno stesso evento ognuno di noi risponde in modo differente. Ciò dipende in larga misura dal bagaglio esperenziale che abbiamo acquisito nel corso del tempo, dalla visione di noi e dalla percezione della nostra capacità di resilienza, dalle strategie di coping che adottiamo, siano esse improntate ad una maggiore passività o al contrario proattività.
In questi mesi abbiamo sperimentato un tumulto di emozioni, siamo passati dalla paura all’ansia, finanche al panico, dalla tristezza alla rabbia. Abbiamo probabilmente compreso che non esistono emozioni positive o negative in senso assoluto, ma che siamo noi a dare il colore alle emozioni. Per esempio, la paura può averci dato quella spinta al rispetto delle regole, che altrimenti avremmo ignorato. Ci è capitato di sicuro di alzarci al mattino smarriti e travolti dalla voglia di piangere, ma abbiamo provato ad utilizzare la tristezza come uno strumento per prenderci cura delle persone che temevamo di perdere.
Non sempre tutto è filato liscio ma ce l’abbiamo fatta, e ora, come stiamo, siamo davvero pronti a ricominciare la nostra corsa?

Elisabetta 42 anni: “Ho rivisto i miei, erano mesi che non ci stavo a contatto se non per portar loro la spesa e devo ammetterlo, non mi sono emozionata poi più di tanto, pensavo che avrei pianto dalla gioia, invece no. Ho pensato che inevitabilmente la vita avrebbe cominciato a riprendere il suo naturale corso, che il fiume avrebbe ripreso a scorrere e con esso tutti problemi che ciò comporta. Ora mi sento quasi triste all’idea di riprendere il mio lavoro, vorrei stare a casa, coi miei figli. Cosa mi succede, la quarantena mi ha fatto capire che la mia vita di prima non mi piaceva poi così tanto”.

Chi di noi, da studente o anche da lavoratore, non ha sperimentato sulla propria pelle la difficoltà di riprendere col proprio lavoro o con lo studio dopo una vacanza. Tutti abbiamo sperimentato il rodaggio necessario per riprendere, perché si sa il nostro corpo è una macchina che funziona bene quando è in movimento, ma se si ferma per troppo tempo, potrebbe essere difficile farla ripartire. Questa percezione ci assale già nella normalità, con la sostanziale differenza che noi non siamo stati in vacanza e ciò che abbiamo sperimentato va sotto la nomenclatura di esperienza traumatica: sia essa vissuta in maniera diretta o indiretta. resterà per sempre iscritta nel nostro conto corrente emozionale.

Cosa potrebbe essere accaduto in questo tempo? Sindrome della capanna
Potrebbe essere che abbiamo paura di ricominciare tutto perché la casa da prigione iniziale si è trasformata nel nostro rifugio, ci sentiamo quasi in una dimensione protettiva intrauterina, come se la casa fosse simbolicamente il nostro utero materno. Il mondo che ci aspetta non è lo stesso di prima e non ci sentiamo pronti ad affrontare dei nuovi cambiamenti nel nostro stile di vita, tra l'altro, un cambiamento così ravvicinato a quello che da poco abbiamo sperimentato chiudendoci nel nostro perimetro di confinamento, scardinando completamente i nostri ritmi.

Come affrontare questa paura?
Strategia kaizen: facciamo un passo alla volta, ricominciamo la nostra corsa, a piccoli passi, in modo da non avvertire, fin da subito, una posizione di rottura netta e improvvisa col passato. Facciamo invece tesoro di quel recente passato, per migliorare il presente e il futuro. In che modo? Non dimenticandoci di ciò che abbiamo capito di noi, non rincorrendo desideri che non desideriamo solo perché siamo presi dalla corsa… Se hai voglia di trascorrere due ore al mare, conceditele! Se hai voglia di passare un po' di tempo coi tuoi figli, trova il modo per poterlo fare. Abbiamo davvero bisogno di tutte le cose materiali verso cui il nostro sguardo è orientato? Oppure, ci sentiamo più “nutriti”, più “pieni” dedicandoci a ciò di cui davvero abbiamo bisogno? Perché questo tempo ci ha insegnato a differenziare il bisogno: indispensabile e limitato, dal desiderio: replicabile all’infinito ma non davvero necessario.
Non castriamoci ma continuiamo a dedicare tempo all’ascolto di noi stessi e di come stiamo. Saranno fisiologiche alcune sensazioni iniziali di paura, di pianto, di confusione e disorientamento.
Questo tempo non è stato un tempo perso ma ritrovato: è possibile che ognuno di noi abbia capito qualcosa in più di sé stesso. Nella vita non si nasce una sola volta e ogni nuova nascita porta in sé una sofferenza.